https://jacobinitalia.it/le-eccezioni-psicotiche/?fbclid=IwAR0yej_s_mhSBdljip_zn2iqrvf6NxC61OxEMZTlJ1DElJ-AbiwESyk2YlU Invito a leggere questo lungo ma interessante articolo scritto da Dario Firenze, di cui condivido alcuni stralci.
Le prime settimane di emergenza per il Coronavirus in Italia verranno ricordate per moltissime cose. Voglio soffermarmi in particolare su un elemento che si è diffuso (viralmente) nel dibattito pubblico, sulla stampa, sui social network e nelle chiacchiere da bar (quando sono aperti): la psicosi. Il termine psicosi è stato largamente abusato in questi giorni. L’evento principale che ne ha sdoganato l’uso è stato l’assalto ai supermercati in diverse zone d’Italia, una corsa all’acquisto oltre che di scorte alimentari anche di mascherine e prodotti igienizzanti. Scene che nella stampa e nei social network hanno creato un flusso di commenti oscillanti tra la preoccupazione e l’ironia a colpi di meme. Il tutto tenuto insieme da una terminologia psicopatologica, categorizzando questi fenomeni con il concetto di «psicosi collettiva». Tale concetto viene utilizzato nel senso comune in modo dispregiativo, come parola-contenitore per tutti i comportamenti collettivi che eccedono le risposte ritenute «normali» o «sane». Questa «diagnosi» nel contesto di contagio si è unita alla valutazione di inciviltà e ignoranza. Il coronavirus è una «psicosi collettiva»? Ma perché un acquisto imponente di prodotti frutto di una situazione di timore per un virus che ad oggi non ha vaccino o terapie specifiche e ha fatto nel nostro paese decine di morti e centinaia di infetti, produce una tale valutazione? Dietro alla derisione e all’esigenza di classificazione si intravede una pulsione elitaria di razionalizzazione. Razionalizzazione che, in questo caso specifico, mostra due problemi principali. Da un lato si analizza il modo in cui i meccanismi di mercato orientano anche le situazioni di emergenza e paura: di fronte al contagio le mascherine e gli igienizzanti per le mani sono divenuti merci introvabili, con prezzi stellari, ma viene sottolineata solo la «psicosi collettiva» dell’acquisto di massa ai supermercati. Esiste un’«economia del panico» non perché qualcuno si «inventa» delle epidemie o delle catastrofi, ma perché gli avvenimenti spesso poco prevedibili determinano delle dinamiche intrinseche ai meccanismi di mercato. Più che occasione di scherno sarebbero momenti in cui analizzare come il feticismo delle merci abbia un effetto sulle nostre vite psichiche oltre che sulle nostre tasche. Dall’altro la risposta razionalizzante ha l’obiettivo tenere a distanza le emozioni, le sofferenze, le angosce di cui si fa fatica a comprendere i motivi. La razionalizzazione del resto è stata studiata dalle teorie psicoanalitiche nell’elaborazione dei meccanismi di difesa: introdotto a inizio Novecento da Ernest Jones, allievo di Freud, il termine definisce tutte quelle spiegazioni razionali e rassicuranti che le persone si danno di fronte a fenomeni e sentimenti vissuti con eccessiva angoscia e difficilmente accettabili. La razionalità dunque non è un approccio oggettivo alla realtà, ma spesso un meccanismo di difesa rispetto all’angoscia del reale. La paura di un virus sconosciuto (fatto alquanto comprensibile, a prescindere dalla valutazione di pericolosità del virus in sé) diventa causa di disprezzo e derisione, roba di cui vergognarsi e da cui prendere le distanze. E la postura razionalizzante ha quasi un’ossessione di «cura» nel senso praticato dalla psichiatria dominante: l’assalto ai supermercati è un sintomo, il sintomo esprime un disagio che dobbiamo eliminare per tornare a essere sani, «normali». Un approccio che rivela la paura della sofferenza psichica, la propria prima di tutto. E fa emergere anche l’illusione che si possa «riprendere controllo» e potere sulla realtà liberandosi dalle emozioni e guidati solo dalla razionalità. Giorno dopo giorno assistiamo a dinamiche ambivalenti degli stessi rappresentanti istituzionali, che spingono per razionalizzare il fenomeno epidemico ma poi agiscono in modo emergenziale di fronte alla crescita del contagio e della paura. La prima cosa da fare dovrebbe essere abbandonare il paradigma razionalizzante che deride e stigmatizza le esperienze di sofferenza psichica e le paure che viviamo intorno a noi, cogliendo le possibilità inedite aperte dal dover «fermare la quotidianità» per sperimentare l’ascolto di noi stessi e di chi è intorno a noi, dal nostro quartiere al posto di lavoro, dal bar fino proprio al supermercato. Basaglia ha affrontato a più riprese anche il concetto di ipocondria riflettendo sul rapporto tra angoscia, corpo e depersonalizzazione (il distacco dall’esperienza di sé e della propria esistenza), in cui l’ipocondria si struttura sul «vivere il ‘proprio corpo’ soltanto come oggetto»: il corpo ‘come oggetto’ invade la coscienza ed è ‘sentito con dolore’. Esso, quindi, non è più ‘mio’, ma diventa un ‘oggetto’ del mondo che si esprime solo attraverso gli incontrollati apparati neurosomatici: l’ansia che si libera da tale insopportabile situazione costituisce, dunque, l’essenza dell’ipocondria che esprime, come direbbe Freud, l’angoscia della morte [Scritti. 1953-1980 Il Saggiatore, 2017]. La riflessione è interessante perché permette, nella situazione di paura dell’epidemia, di ragionare sulla dimensione diffusa della perdita di rapporto con il proprio corpo. E il termine ipocondria, a differenza di quello stigmatizzante di «psicosi collettiva», serve non per etichettare un comportamento ma per imparare qualcosa di noi e della società in cui viviamo. Un altro psichiatra «eretico», Frantz Fanon, propone il concetto di sociogenesi della sofferenza psichica, analizzando come i nostri sintomi trovino le proprie radici e modi di esprimersi nelle strutture sociali in cui nasciamo, cresciamo e a cui partecipiamo quotidianamente. Per Fanon – che in Pelle nera, maschere bianche utilizza questo concetto per analizzare l’esperienza vissuta dalle persone nere nella struttura sociale razzista e le conseguenze psichiche che ne derivano – la sofferenza mentale non può essere ridotta a una dimensione organica o individuale ma dev’essere compresa a partire dal contesto storico, politico e sociale in cui l’individuo è inserito ed esprime una specifica sintomatologia. Sintomatologia non neutra ma segnata dai rapporti di dominio vissuti dall’individuo. Possiamo dunque dire che esistono due tipi di cura che la lingua inglese ci aiuta a distinguere: la cura razionalizzante (to cure), che cancella l’espressione della sofferenza e cerca di «normalizzarla», e il prendersi cura (to care) della nostra e altrui esperienza vissuta, la cura reciproca. Oggi abbiamo l’occasione di cambiare prospettiva per costruire relazioni capaci di sostenersi a vicenda, di raccontarsi e sentirsi creduti, di riflettere e condividere le strategie comuni, le cose che desideriamo e quelle di cui abbiamo bisogno per stare bene. Si tratta di riuscire a dare spazio alla vita psichica come terreno pienamente politico, e viceversa di praticare la politica come dimensione resa viva dalle nostre esperienze vissute, emotive, psicologiche. Un prendersi cura che si riappropri del potere sulle nostre vite: il potere di averne cura collettivamente. E se fosse questa una delle scintille per la creazione del vero «stato di eccezione»?
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Considerato un muscolo d’eccezione misteriosamente animato, motore primo della vita, il cuore è l'organo che ha sempre ispirato artisti, poeti, filosofi e scrittori. Esistono a riguardo immagini, proverbi e metafore: "non avere cuore", "spaccare il cuore", "corteggiare", "metterci il cuore", "ricordare", "avere coraggio", "col cuore in mano" [qui ne puoi trovare altri].
Il cuore è al centro di ogni aspetto della nostra esistenza. Quasi tutte le culture tradizionali attribuiscono al cuore il significato di centro simbolico dell’affettività e dell'anima. Per tradizione, assume anche il significato di cardine della spiritualità e in questo senso è considerato un organo sacro. In India è la dimora di Brama; per l’Islam il trono di Dio. Presso i sufi, i saggi islamici, la visione spirituale viene paragonata “all’occhio del cuore”. Gli alchimisti, d’altra parte, ritenevano che il crogiuolo interiore dell’uomo, ossia il luogo che fornisce il calore necessario al compimento della grande Opera, fosse nel centro del cuore. Inoltre, quando in Egitto si imbalsamavano i morti, l’unico viscere che restava intatto nel corpo della mummia era il cuore, che come centro supremo dell’uomo doveva rispondere delle azioni del defunto al cospetto del giudizio divino. Questa presa sull'immaginario gli ha guadagnato un assoluto rispetto anche in ambito medico, rendendolo quasi un tabù: fino alla fine del 19esimo secolo infatti nessuno aveva osato avvicinarvisi con un bisturi. C'erano certo dei limiti tecnici, ma il divieto culturale era ancora molto forte. La svolta è avvenuta quando si è iniziato a considerarlo una macchina. Il cambio di punto di vista ha permesso lo sviluppo di tecnologie salvavita. Ad esempio, William Harvey ha indagato e svelato la natura della circolazione sanguigna; C. Walton Lillehei, con la macchina cuore-polmoni ha dato speranza di vita a milioni di pazienti; Werner Forssmann per primo sperimentò su se stesso la procedura per raggiungere il cuore con un catetere – aprendo così la strada a una chirurgia cardiaca meno invasiva; mentre George Mines ha scoperto i meccanismi elettrici del muscolo cardiaco. Nonostante i progressi tecnologici e una visione meccanicistica, l'imprevedibilità del cuore continua a fare paura. Da certe patologie, risulta che le emozioni giocano un ruolo fondamentale nella salute del cuore. La più spettacolare è la cardiomiopatia di Tako-tsubo o patologia del cuore infranto. Quando il cuore viene indebolito da uno stress fisico od emotivo, la persona può sviluppare dolori al petto, aritmie e il cuore stesso cambia forma temporanemanete nell'ecografia. Diventa a palloncino, come il vaso per la pesca del polpo usato in Giappone, da cui il nome. In nessun'altra condizione il cuore biologico e quello metaforico sono cosi strettamente intrecciati. Si è inoltre scoperto che il cuore non è solo fondamentale per la sopravvivenza, ma anche per il modo in cui le persone si relazionano l'una con l'altra. In particolare, la variazione dell'intervallo dei battiti del cuore gioca un ruolo chiave nei comportamenti sociali che vanno dal prendere decisioni, regolare le proprie emozioni e far fronte allo stress. Se il cuore fosse solo una pompa basterebbe manipolarlo con la farmacologia ma non è così. E' un organo profondamente innervato che, come molti altri, risponde ai nostri stati emotivi ed ha interazioni complesse con il modo in cui ci relazioniamo agli altri. E molto probabilmente, i progressi futuri in questo campo dipenderanno sempre più dai nostri stili di vita, e sempre meno dai dispositivi che saremo in grado di inventare. Le cose che ho fatto per farti restare, dal blog di Enrica Tesio Mi dicesti:
“È bello”. “Che cosa?”. “I capelli, son vivi, non te li tagliare”. Ruppi allora le forbici, li lasciai allungare, arrivarono al collo e alle spalle e dalla spalle alla vita, dalla vita ai polpacci, ai talloni, alla terra, dalla terra ai torrenti, ai fiumi in cascata fin verso la foce, dove l’acqua da dolce si tuffa nel sale e lì, che onda nell’onda, i ricci divennero ricci di mare. E questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Le mani, son farfalle allo sbando, svolazzano al ritmo con cui stai parlando”. Fu quel giorno che imparai il linguaggio dei sogni, traducevo in diretta per i non dormienti. Entrai in un’air band e accordai i miei strumenti. Mi misi a dirigere orchestre inventate e poi il traffico urbano in punta di dita. Formai code ed ingorghi, non si poteva più uscire né entrare. E questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti. “È bello”. “Che cosa?”. “I posti in cui viaggi quando dormi, la notte. Mi piace ascoltarti di ritorno, al mattino”. Cominciai a dormire con grande attenzione, per segnarmi i dettagli e variare il copione. Cambiavo scenari, volevo stupirti con effetti speciali. Con trame intricate e personaggi da amare. E anche questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Il tuo sguardo, ogni tanto si perde e quando si perde mi viene a cercare”. Lo allenai a guardare di notte come le civette, come le mie gatte. Si fece più forte, sbattendo le ciglia sbattevo le porte, con gli occhi spostavo gli oggetti, una piuma, una foglia, poi una bottiglia. Vedevo attraverso i vestiti, i muri, le case, ti spogliavo con gli occhi, imparai a distanza ad ipnotizzare. E anche questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Dal bagno, sentirti cantare”. Imparai ninne nanne da ogni parte del mondo. Conoscevo canzoni per ogni tipo di fame, che toglievano l’ansia, che saziavano il cuore, che ti veniva anche voglia di fare l’amore. Ebbi grandi maestre, le sirene del mare. E anche questo lo feci per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Le spalle, il sedere, quando vai, ti allontani”. Un piede e poi un altro, impettita, mi misi in cammino, divenni un miraggio, un’ombra, un puntino. E alla fine più niente, una stella cadente. Poi persi la strada per ritornare. E anche questo lo feci per farti restare. Bertrando, psichiatra e psicoterapeuta sistemico, spiega che "le emozioni si combinano sempre tra loro: una può evocarne un'altra, secondo la personalità degli attori, la loro storia, il modo in cui ciascuna emozione è espressa o taciuta". Ogni emozione sentita o mostrata è una risposta all'emozione mostrata da qualcun altro o ad uno stimolo ambientale e insieme è un messaggio comunicativo, più o meno intenzionale. Gli altri sono a loro volta influenzati dalle emozioni che mostriamo, sviluppano le loro emozioni verso di noi e così via. L'emozione, in una ottica sistemica, diventa così un modo di creare e modulare le connessioni e le relazioni tra persone. Il modo di sentire le emozioni cambia però in relazione al sistema e alla "posizione" che occupo. Infatti, se è vero che c'è una "programmazione biologica" (un aspetto più fisico, genetico e universale) delle emozioni, è vero anche che le emozioni sono modellate e modificate dalle influenze dell'ambiente e, tra queste, quelle culturali sono tra le più importanti" [P.Bertrando,2014]. Ma cosa significa praticamente? A seconda di dove mi trovo, del mio ruolo e delle persone che ho davanti, potrò avere reazioni emotive diverse. Immaginando ad esempio di guardare un film con amici: la stessa scena potrà suscitare emozioni diverse in ognuno dei partecipanti. O ancora, la mia sorpresa di fronte ad un regalo sarà connotata in modo diverso se il regalo proviene dal mio partner o da un collega di lavoro. Così come la mia reazione emotiva ad una ingiustizia sarà diversa a seconda del luogo in cui mi trovo e da chi agisce l'azione. Ci sono poi emozioni che, a seconda del contesto culturale, vengono considerate più o meno lecite. La "vergogna" è una emozione molto sentita in Giappone, mentre nelle culture più occidentali viene quasi bandita e diventa sinonimo di debolezza e negatività. Anche questa variabile culturale influenza la nostra espressione delle emozioni. Sergio Aragones, nelle sue vignette "The shadow knows", mostra molto bene un altro aspetto interessante. A volte cerchiamo intenzionalmente di mascherare o forzare alcune emozioni, altre volte non ne siamo semplicemente consapevoli. Capita quindi di ritrovarsi nelle contraddizioni, o di non sentirsi a proprio agio, o di sentire che qualcosa non va ma non riuscire a capirne il motivo.
Nel percorso terapeutico, l'attenzione al mondo emotivo è importante per un trattamento più efficace e completo. E' nel dialogo tra paziente e terapeuta che si creano le possibilità di cambiamento nella posizione emotiva. |
Emma Montorfano
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